I Brics si allargano a sei paesi a partire dall’anno prossimo. A Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica si aggiungeranno Argentina, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Per l’Occidente è un duro colpo sul piano geopolitico. Di fatti, alcune economie che consideriamo “alleate” si stanno sganciando dalla nostra orbita per coordinarsi con il blocco che fa riferimento a Pechino (e Mosca). Parliamo, anzitutto, di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Insomma, il mondo arabo gira i tacchi.
Conti pubblici USA allo sbaraglio
Mentre gli Stati Uniti sono al loro interno sempre più dilaniati politicamente, i conti pubblici peggiorano quotidianamente. La montagna del debito è esplosa a 32.800 miliardi di dollari, segnando una crescita di 1.400 miliardi in poche settimane rispetto al precedente tetto dei 31.400 miliardi su cui Congresso e Casa Bianca litigarono per mesi. Quest’anno, l’Ufficio bilancio del Congresso stima che il deficit salirà ancora a 1.500 miliardi, attestandosi verosimilmente al 5,8% del PIL. La spesa per interessi nel frattempo galoppa a 663 miliardi ed è attesa impennarsi a 1.400 miliardi al 2033. Sempre secondo le stime, il debito federale supererà il 180% del PIL nel 2053, a 30 anni da oggi.
Questi sono i numeri di una crisi fiscale bella e buona di cui iniziano seriamente a preoccuparsi anche gli ambienti finanziari americani. Anche perché tutto questo avviene in un contesto di crescita della prima economia mondiale. Cosa accadrà quando gli Stati Uniti andranno in recessione? Evidentemente, aumenteranno ulteriormente la spesa e le entrate caleranno.
Boom rendimenti USA segnale allarmante
Se guardiamo ai rendimenti sovrani, però, ci accorgiamo che il decennale è salito fin sopra il 4,30%, ai massimi da sedici anni. Mentre scriviamo resta al 4,25%. Livelli che potrebbero non essere più correlati né alle sole aspettative d’inflazione, né alla stretta monetaria della Federal Reserve. Sembra che i mercati intravedano proprio il rischio di una crisi fiscale, ovvero di un costante deterioramento dei conti pubblici. Impossibile ipotizzare, ad esempio, che l’amministrazione Biden tagli il deficit in piena campagna elettorale. E chiunque vinca alla fine dell’anno prossimo, non esiste alcun piano di alcun candidato che vada nella direzione di risanare i conti.
Il “new normal” verso cui gli Stati Uniti, alias il mondo, starebbero avviandosi appare un mix tra tassi di interesse moderatamente alti, deficit sostenuti e debiti galoppanti. Ma i titoli del debito di Washington fungono da “benchmark” mondiale. Se i loro rendimenti salgono, si trascinano dietro quelli delle altre economie avanzate e persino emergenti. E questo farebbe lievitare il costo di emissione dei debiti sovrani, già saliti nel 2022 a 92.000 miliardi di dollari nel mondo, prossimi al 100% del PIL.
Rischio crisi fiscale globale
A questo punto, una grande economia come l’Eurozona potrebbe o seguire la politica fiscale degli Stati Uniti o tornare all’austerità pre-Covid. Nell’uno e nell’altro caso, il rischio di una crisi fiscale diverrebbe elevato. Il risanamento colpirebbe l’economia e deprimerebbe inizialmente le entrate, mentre il deficit spending farebbe schizzare il debito. O gli Stati Uniti si danno una calmata in termini di disavanzo o rischiano di provocare contraccolpi all’intero sistema economico e finanziario globale.
E’ in questo scenario che la solidità del dollaro verrebbe meno qualora il blocco antagonista all’Occidente si mostrasse più affidabile e oculato. Non una prospettiva credibile nel breve termine, mentre nel lungo tutto sarebbe possibile. L’unica cosa a non risultare sostenibile è la politica fiscale del Tesoro americano. Con un deficit primario (al netto degli interessi sul debito) quasi al 3%, a confronto l’Italia sembra una Germania con il suo disavanzo inferiore all’1%.