E’ un brutto momento per la Germania, che dopo un lungo decennio di crescita economica in barba alle condizioni precarie dei vicini dell’Eurozona rischia di cadere in recessione prima e più di tutti nell’area. Il PIL tedesco è rimasto invariato nel secondo trimestre, crescendo solo dell’1,5% su base annua. E le vendite al dettaglio a giugno sono letteralmente precipitate del 9,8% annuale, il calo più marcato da inizio anni Ottanta. Il dato destagionalizzato del -8,8% risulta essere, invece, il peggiore dall’inizio della serie storica nel 1994.
I tedeschi sono i principali “falchi” in seno al board di Francoforte. La Bundesbank non ha mai mandato giù l’accomodamento monetario estremo sotto Mario Draghi prima e Christine Lagarde dopo. L’opinione pubblica nazionale è compatta attorno alla richiesta di porre fine alla politica degli “Strafzinsen” che tanto penalizza i risparmiatori tedeschi da ormai troppi anni. E adesso che l’inflazione è arrivata a sfiorare l’8%, la pressione per un cambio di policy aumenta a Berlino. Il calo dei consumi è dovuto esattamente alla perdita del potere di acquisto come mai da diversi decenni.
L’ultimo rialzo dei tassi BCE prima di quello di luglio avvenne nel lontano 2011. In estate, Jean-Claude Trichet annunciava la stretta, salvo essere seguita pochi mesi più tardi dal taglio dei tassi sotto il nuovo governatore Mario Draghi. Non fu un capriccio di quest’ultimo. Anche in conseguenza di quella stretta, gli spread erano esplosi nel Sud Europa, minacciando la stessa sopravvivenza dell’euro. La Germania accettò l’inevitabile: azzeramento dei tassi, pur di salvare l’euro. Per fortuna di tutti, ciò fu reso possibile dall’indebolimento dell’inflazione, che arrivò a scendere sottozero. Ad un certo punto, la principale minaccia per l’area sembrò essere la deflazione.
Tassi BCE, rialzo già in dubbio
Con l’economia tedesca avviata verso la recessione, stavolta rischia di essere la Germania ad arrestare la stretta sui tassi BCE a pochi mesi di distanza dal suo varo. Scontato un nuovo rialzo dello 0,50% a settembre, forse ve ne sarà qualche altro nel resto dell’anno. Ma possiamo dirvi con certezza che se l’economia nell’area si deteriorasse, la BCE non avrebbe modo di proseguire sul percorso restrittivo. Dirà formalmente che l’indebolimento della congiuntura finirà per far ripiegare l’inflazione e tanti saluti all’aumento del costo del denaro.
Sarebbe un paradosso, ma alla fine sarebbe proprio la Germania ad accelerare la fine della stretta sui tassi BCE. Il problema è che, a differenza del 2011, stavolta essa si accompagnerebbe a una ulteriore accelerazione dei tassi d’inflazione, alimentati dalla crisi energetica. La Russia potrebbe interrompere le forniture di gas e petrolio all’Europa per punirla del suo sostegno all’Ucraina e delle sanzioni finanziarie. Se così, il PIL collasserebbe e i prezzi al consumo galopperebbero. Per Francoforte sarebbe il peggiore scenario possibile: se continuasse ad alzare i tassi, farebbe sprofondare le economie dell’area; se cessasse la stretta, favorirebbe l’esplosione dell’inflazione.
In generale, i mercati ne trarrebbero un segnale di debolezza strutturale della BCE. Non riuscire mai ad alzare i tassi, una volta perché soffre il Sud Europa e un’altra perché soffre il Nord, diffonderebbe la sensazione che l’Eurozona sia intrinsecamente votata all’instabilità. Se a questo aggiungiamo l’assenza di una struttura fiscale comune, il disastro sarebbe completo.