Prosegue lo scontro a distanza tra i vertici di Stellantis e il governo Meloni. Durante un’intervista concessa a Bloomberg, il CEO Carlo Tavares ha replicato alle accuse rivoltegli in queste settimane, sostenendo che la società da lui guidata sarebbe un “capro espiatorio”. Il manager portoghese ha sostenuto che gli stabilimenti di Mirafiori e Pomigliano sarebbero principalmente a rischio per via delle politiche dell’attuale esecutivo, colpevole di non erogare i sussidi per incentivare gli acquisti di auto elettriche. Egli ha rivendicato anche un approccio “basato sui fatti” e ha smentito che la casa automobilistica sia in mano allo stato francese, con cui “non sempre mi sono trovato d’accordo”, ha spiegato.
Urso replica a Stellantis
La risposta di Roma non si è fatta attendere. Al termine del vertice convocato nella Capitale per discutere del futuro delle fabbriche in Italia e degli ecoincentivi, il ministro per il Made in Italy, Adolfo Urso, ha chiarito che si è reso necessario “un cambio di passo”. Ha snocciolato qualche dato a tale proposito. Gli incentivi del 2022, ha ricordato, sono finiti per l’80% per l’acquisto di auto prodotte all’estero. Il 50% di auto Stellantis incentivate è risultato costruito fuori dal nostro Paese.
Cercasi secondo produttore di auto in Italia
I nuovi ecoincentivi prevedrebbero fino a quasi 14.000 euro in favore dell’acquisto di auto elettriche, ibride o a basso consumo, con importo dipendente dall’eventuale rottamazione di un’auto usata o meno, della sua categoria di appartenenza (Euro 2, 3 o 4) e dal reddito Isee. Tuttavia, il governo vorrebbe legare tali sussidi a un qualche meccanismo per cui la produzione avvenga in Italia. Stellantis si è impegnata formalmente a raggiungere quota 1 milione di auto prodotte sul territorio nazionale, ma nel 2023 ha chiuso intorno alla metà di quel dato con riferimento ai soli veicoli passeggeri.
Per questa ragione il governo cerca un secondo produttore, diffidando degli impegni dell’ex Fiat.
Exor sopra il 22% delle azioni con diritto di voto
Attenzione, però, perché Banca d’Italia possiede l’1,176%. Se lo stato italiano decidesse di entrare nel capitale, magari attraverso Cassa depositi e prestiti, gli basterebbe rilevare il 5% scarso per pareggiare la percentuale di Parigi. Alle attuali quotazioni in borsa, l’operazione peserebbe sulle spalle dei contribuenti per circa 3,3 miliardi. C’è da dire, tuttavia, che l’ingresso nel capitale non equivarrebbe con certezza alla capacità di incidere sulla governance. Con chi farebbe asse nell’assemblea dei soci? Con quella Exor con cui litiga apertamente e che sostiene proprio la gestione nei fatti in mani francesi?
Già, la famiglia Elkann non è un azionista di minoranza in Stellantis in cerca di soci con cui corroborare il suo peso. Al contrario, è primo azionista della casa automobilistica. In virtù di una previsione statutaria, che assegna un’azione speciale per ogni azione ordinaria posseduta ininterrottamente per almeno tre anni, il suo peso in assemblea risulta ancora maggiore. Considerato che anche Peugeot e BfiFrance possono avvalersi di tale clausola, i suoi diritti di voto salirebbero a circa il 22,50% e quelli dei tre soci stabili complessivamente attorno al 43%.
Ingresso dello stato in Stellantis dai benefici incerti
Dunque, lo stato italiano dovrebbe entrare nel capitale solo tramite un accordo con i soci già al comando, altrimenti resterebbe in una condizione di mancata incisività sulla governance.
Stellantis non molla la presa, va detto. Tavares ha il pregio di chi non ci tiene a perdere la faccia, continuando a reclamare sussidi per non chiudere gli stabilimenti in Italia. Un concetto peculiare di capitalismo, per cui se non sei capace di vendere un prodotto spetta allo stato incentivarne l’acquisto con denari pubblici. E se esso ti chiede in cambio garanzie occupazionali, gli rispondi che deve rispettare la libertà decisionale dell’impresa. Vero è che così fan tutti in Europa, ma perlomeno esiste un forte legame tra sussidi e produzione domestica. Impensabile in Germania incentivare le auto elettriche e nel frattempo assistere a piani di delocalizzazione di Volkswagen, tra l’altro anch’essa a partecipazione pubblica.