Nord e sud continuano a restare divisi sul piano economico, quando sono trascorsi “solo” 157 anni dall’Unità d’Italia. Anche ieri, la pubblicazione dei dati sulle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti nel 2016 ci hanno fornito uno spaccato abbastanza eterogeneo tra le varie parti d’Italia. Se mediamente un contribuente ha dichiarato di guadagnare 20.940 euro lordi, pari a 1.745 euro mensili (sempre lordi), al nord-ovest la cifra sale a 23.860 euro (1.988 euro al mese), al nord-est si attesta a 22.420 euro (1.868), scendendo a 21.700 euro al centro (1.808), crollando a 16.550 euro al sud (1.379) e risalendo di poco a 16.660 euro nelle isole maggiori (1.388).
Perché questi dati non sono in sé del tutto rappresentativi della realtà? Non è un mistero che l’evasione fiscale al sud assuma dimensioni più di massa. Il lavoro nero continua ad essere una piaga per milioni di meridionali, i quali ufficialmente al fisco dichiarano zero o poco più, mentre (per fortuna) hanno di che vivere, pur non navigando certo nell’oro. Del resto, non possiamo davvero immaginare che la bassa occupazione al sud sia effettivamente quella delle cifre Istat, altrimenti non si capirebbe come vivrebbe buona parte del Mezzogiorno, che non gode spesso nemmeno di un sostegno pubblico al reddito.
Lavorare meno a parità di stipendio è possibile anche in Italia?
C’è poco, tuttavia, di che consolarsi. Lavoro nero o meno, il sud è affamato di opportunità occupazionali e decine di migliaia di giovani ogni anno sono costrette a spostarsi al nord per ambire a uno stipendio, che in realtà consentirà loro, in gran parte dei casi, appena di sbarcare il lunario.
Differenziare gli stipendi tra nord e sud
A Catanzaro con uno stipendio da 1.500 euro netti al mese ci campi dignitosamente una famiglia se non hai un mutuo o un affitto da pagare, mentre a Cremona lo stesso nucleo farebbe una vita stentata. E allora, il vero “divide” tra le due Italie è dato dalle opportunità di lavoro. Al nord, risultano occupati 2 su 3, al sud molti meno di 1 su 2. E’ il segno che la domanda di lavoro delle imprese nel Meridione sia notevolmente più bassa che al nord. Se il mercato venisse lasciato agire liberamente, l’incontro tra domanda e offerta genererebbe simili livelli di occupazione in tutta Italia, ma tramite stipendi di partenza più bassi al sud e più alti al nord. Perché questo non avviene? Semplice, i contratti di categoria sono nazionali. E così, un’azienda metalmeccanica, ad esempio, è tenuta a retribuire con lo stesso stipendio un dipendente a Milano o a Enna per il medesimo inquadramento. Ciò provoca due distorsioni: stipendi reali da fame al nord e bassa occupazione al sud.
Come rimediare? Sminuendo la contrattazione collettiva nazionale e assegnando maggiore potere a quella aziendale. Se imprese e sindacati fossero nelle condizioni di contrattare gli stipendi localmente, l’esito sarebbe più confacente alle reali condizioni economiche di ogni regione e provincia.
Lavoro nero alle stelle e stipendi miseri: quanto guadagno gli irregolari e le regioni peggiori
E sarebbe opportuno che ciò accadesse anche con gli stipendi pubblici, anche se trattasi di una proposta politicamente poco sostenibile. Se si abbassassero quelli al sud e si alzassero al nord, i meridionali sarebbero meno attratti dall’impiego pubblico (pur rimanendo per molti un sogno per la sua sicurezza), in molti casi puramente parassitario, mentre questo diverrebbe più appetibile al nord, con la conseguenza che si porrebbe fine a questa corsa ormai sfrenata al concorso sotto Roma, dove maggiori energie e competenze verrebbero investite laddove servono. Devono cambiare i paradigmi, fino ad allora avremo sempre nord e sud come due stati separati in casa. Ma non ditelo ai sindacati e a qualche storico meridionalista fautore del vittimismo.