Tra il 1991 e il 2022 gli stipendi italiani sono cresciuti appena dell’1% in termini reali contro una media OCSE del 32,5%. Emerge dall’ultimo Rapporto Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Non sono dati clamorosi, nel senso che già li conoscevamo grosso modo. Stando sempre all’OCSE, tra il 1990 e il 2020 l’Italia è stato l’unico paese dell’area ad avere registrato una crescita reale delle retribuzioni negativa. Per l’esattezza, del -2,9%.
Stipendi italiani e produttività bassi
La bassa produttività spiega la dinamica.
A tale proposito, possono offrirci una panoramica più completa alcuni dati sulle dimensioni delle imprese italiane. Nel 2020 per l’Istat esistevano 4 milioni e 354 mila attività sul territorio nazionale. Di queste, le cosiddette “microimprese”, cioè fino a un massimo di 9 addetti, erano il 94,8% del totale. Parliamo di quasi 4 milioni di piccole imprese. Tuttavia, contribuivano soltanto per il 26,8% alla creazione di valore aggiunto. Invece, le grandi imprese (oltre 250 dipendenti) valevano appena lo 0,1% del totale, ma contribuivano per il 35,3% alla creazione di valore aggiunto e per ben il 23,3% all’occupazione.
Poche grandi imprese in Italia
Cosa vogliamo dire con questo? Le piccole e medie imprese sono senza dubbio una fonte di ricchezza e prova del genio italiano. Ma dovremmo chiederci per quale ragione nel nostro Paese si registra l’eccezione alla regola per la quale le imprese tendono sempre a crescere sul piano dimensionale. Cosa le fa restare piccole da noi? Non vogliamo addentrarci in questo dibattito, ma di certo burocrazia e pressione fiscale non aiutano.
La retorica politica sulle virtù delle piccole e medie imprese cela più che altro l’incapacità dei governi di liberare le energie produttive, impedendo loro di crescere. E questo ha da molti decenni effetti depressivi proprio sugli stipendi italiani. Torniamo ai dati di sopra: lo 0,1% delle imprese crea oltre un terzo dell’intero valore aggiunto, cioè PIL. E vale quasi un quarto dell’intera occupazione. Significa che questo è il segmento più produttivo del mercato del lavoro e bisognerebbe espanderlo il più possibile per accrescere il livello medio degli stipendi italiani.
Stipendi italiani bloccati da leggi punitive
Le piccole e medie imprese rappresentano il 99,9% delle imprese, ma solo il 76,7% dell’occupazione e il 64,7% del valore aggiunto. In altre parole, hanno scarsamente produttive. Le retribuzioni dei loro dipendenti necessariamente non possono tendere ai livelli medi delle grandi economie europee. Ma l’Italia è un paese assai curioso. Anziché rimuovere gli ostacoli alla crescita, s’intestardisce nel fare l’esatto contrario. Pensate al clima di resistenza diffusa verso le grandi realtà produttive, specie se straniere. E pensate alle miriadi di leggi che ogni anno puntano a salvaguardare le piccole e medie imprese, come se le grandi imprese non fossero meritevoli di attenzione.
Si parla tanto di lavoro nero o di contratti inadeguati in questi mesi di dibattito sul salario minimo. E’ chiaro dove si annidino i due fenomeni. Raro trovare un’impresa con mille dipendenti che ne abbia assunti alcuni in nero, molto probabile che ciò avvenga in una microimpresa. E non perché il datore di lavoro di quest’ultima sia più cattivo. Semplicemente, o non dispone di capitali sufficienti per stare sul mercato a condizioni regolari o la legislazione quasi lo invita a fare ciò.
Superare retorica su piccole e medie imprese
Superare la retorica e guardare ai fatti è il primo passo per dare una mano agli stipendi italiani. Non si tratta ovviamente di colpire le piccole imprese, bensì di creare le condizioni affinché possano crescere sul piano dimensionale senza costi legati al cambio di legislazione. E bisognerebbe creare anche un ambiente più accogliente per coloro che, disponendo di grossi capitali, abbiano voglia di investirli in Italia. Gran parte di questo discorso ha a che fare con la quotazione in borsa. Resistenze culturali, ma anche leggi farraginose e quasi punitive inibiscono molte attività di chiedere i capitali al mercato. Con la conseguenza di restare sotto-dimensionate, sotto-capitalizzate e sotto-utilizzando le energie espresse dalla manodopera disponibile.