Come per il mobbing, anche lo straining deve essere provato dal lavoratore che lo subisce. La condotta del datore di lavoro nei confronti del lavoratore dipendente necessita di prove concrete affinché possa considerarsi il danno psico-fisico, laddove il nesso di causalità assume ampia importanza in fase giuridica.
Lo straining, entrato a far parte del nostro linguaggio comune, deriva dall’inglese “to stress” (stressare) e riguarda particolari situazioni a cui sono sottoposti oggi i lavoratori dipendenti. L’evoluzione dell’organizzazione del lavoro, il cambiamento delle regole, le maggiori esigenze imprenditoriali, la pressione mediatica, l’utilizzo sempre più spasmodico dei mezzi informatici e i nuovi contesti ambientali di lavoro, stanno facendo sorgere un nuovo tipo di malattie e disagi collegati al mondo del lavoro.
Il danno da straining
Detto questo, il lavoratore può essere sottoposto a stress durate il lavoro, visti i ritmi frenetici che ruotano ormai intorno all’attività quotidiana di produzione, a qualsiasi livello e in qualsiasi settore. Ne deriva che i tribunali del lavoro spesso si trovano a dover dirimere cause di risarcimento danni causate da straining, oltre che da mobbing. Tuttavia, benché non esista nel nostro ordinamento un vero e proprio reato riconducibile allo straining, è necessario che vengano provati diversi elementi affinchè il Giudice possa riconoscere la condotta lesiva da parte del datore di lavoro ai danni del lavoratore. Allo scopo vanno provati: il danno patito, la condotta persecutoria del datore di lavoro e il nesso causale. Molti lavoratori, infatti, tentano cause velleitarie contro i propri datori senza avere ben chiaro che, nella maggioranza dei casi, mancano gli elementi sufficienti per vincere. D’altro canto, è anche vero che molti datori di lavoro per liberarsi magari di dipendenti divenuti scomodi attuano ogni condotta al limite della legalità per indurre il personale alle dimissioni.
L’onere della prova spetta al lavoratore
La Corte di Cassazione ha sentenziato in diverse occasioni la necessità di provare in maniera inconfutabile il nesso causale fra danno patito per mobbing o straining dal lavoratore e la condotta vessatoria del datore di lavoro. A tal fine è necessario – rileva la Corte nella recente sentenza 24883 del 2019 relativa a un caso di straining – che incombe sul dipendente l’onere della prova. Spetta, infatti, a chi subisce il danno di dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso con il danno lamentato. E solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. “Non si può pretendere – sottolineano la Corte di Cassazione – che il giudice colmi, con i propri poteri istruttori, la colpevole inerzia probatoria o la totale carenza probatoria sui fatti costitutivi della domanda”. In tal senso assumono rilevanza preponderante ai fini del processo per mobbing o straining le prove testimoniali.
Straining, nuova figura di stress
In Italia, il concetto di straining ha assunto da poco rilevanza giuridica per via giurisprudenziale: la prima pronuncia sull’argomento si deve al Tribunale del Lavoro di Bergamo che, con sentenza n. 286 del 21 aprile 2005, a seguito di consulenza tecnica esperita proprio dal celebre Dott. Ege, ha posto più chiari limiti alla configurabilità della condotta mobbizzante, per individuare nel nuovo fenomeno dello straining una fattispecie più lieve di conflittualità lavorativa, la quale, prescindendo dalla frequenza e ripetitività dei comportamenti vessatori, elemento necessario, invece, affinché possa legittimamente parlarsi di mobbing, si connota comunque per la permanenza, in capo alla vittima, di una condizione psico-fisica di disagio sul luogo di lavoro.