Le manovre per il futuro societario di Generali sono iniziate. Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio hanno dichiarato nei giorni scorsi un patto di consultazione, sostenuto anche da Edizione (Benetton) e Fondazione Crt. Non avevano neppure l’obbligo di rendere pubblica tale alleanza, ma che lo abbiano fatto è stato un segnale ben evidente lanciato in primis a Mediobanca.
Piazzetta Cuccia detiene il 12,93% di Generali e può confidare sull’1,46% dei De Agostini. Nelle scorse settimane, i due grandi imprenditori italiani hanno rastrellato azioni sul mercato, salendo rispettivamente al 5,95% e al 5%.
Il CEO è in carica dal 2016 e per il meccanismo statutario, che praticamente prevede una sorta di cooptazione degli eletti da parte del board uscente, il rinnovo del mandato sembra molto probabile. Dalla sua ha i numeri. In cinque anni, le azioni Generali hanno guadagnato il 31%, mentre gli azionisti hanno beneficiato di un ritorno complessivo superiore al 100%, grazie alle maxi-cedole staccate nel periodo. Il Leone di Trieste ha saputo tagliare i rami secchi e lanciarsi in business più redditizi sotto il manager francese. Di questo ne danno atto gli stessi “scalatori” di questi giorni.
Su Generali scontro tra poteri sulla governance
Tuttavia, essi ribattono che vorrebbero modernizzare la governance, rendere la compagnia più efficiente e puntare sulla digitalizzazione. A parole, non un vero programma alternativo. Peraltro, essi cercano da mesi di riposizionarsi a monte, salendo in Mediobanca. Qui, Caltagirone detiene ormai il 18,9% e Del Vecchio il 3%. Una doppia scalata che avrebbe tutto il senso di ribaltare il potere in due dei principali salotti della finanza tricolore.
In un certo senso, è così. Ma non è solo questo che sta accadendo. Dietro all’operazione si cela un diverso pensiero sul futuro assetto. Donnet è contrario all’espansione e punta più semplicemente a posizionarsi nei business redditizi. Il duo italico vorrebbe giocare d’attacco come strategia anche per difendersi dalle scalate straniere. In sostanza, acquisire asset all’estero per diventare grandi e rendersi non scalabili dalla finanza transalpina, in particolare. E più di ogni altra cosa, vorrebbe trasformare Generali in una public company, cioè una società dall’azionariato diffuso, in cui nessuno comanda e tutti comandano. Il rischio? Manager che diventerebbero onnipotenti in assenza di un azionista di riferimento stabile che li tenesse a bada.
Ad ogni modo, sbaglia chi pensa che siamo a sovranismo contro esterofilia. Caltagirone è a capo di un impero delle costruzioni, che pur essendo italiano fattura perlopiù all’estero. E Del Vecchio ha fuso la sua società di occhiali Luxottica con la francese Essilor anni fa. Gli stessi Benetton sono molto radicati all’estero. Insomma, non c’è alcuna difesa semplicistica dell’italianità di Generali, bensì il tentativo di un pezzo del capitalismo tricolore di farsi spazio nel salotto della finanza.