Cara maggioranza di centro-destra, sulle concessioni balneari avete torto marcio e ne sarete di certo consapevoli. Pare che la premier Giorgia Meloni abbia preso carta e penna – figurativamente, immaginiamo abbia usato la posta elettronica certificata! – e inviato alla Commissione europea le sue “osservazioni” sul tema che divide Roma da Bruxelles praticamente dal 2006, quando fu emanata questa benedetta direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi.
Secondo le indiscrezioni di stampa, che ci auguriamo siano inesatte, il governo intenderebbe proporre all’Unione Europea una soluzione per chiudere la questione balneari: anziché introdurre l’obbligo di mettere a bando le concessioni dal 2024, si autorizzerebbero i Comuni a concedere ulteriori porzioni di spiagge libere a nuovi imprenditori italiani e stranieri desiderosi di investire nel nostro Paese.
Nuove spiagge libere in concessione
L’idea alla base di questa proposta sarebbe la seguente: sia la direttiva Bolkestein che l’ultima sentenza della Corte di Giustizia UE farebbero riferimento al concetto di “risorsa naturale scarsa” per imporre l’obbligo di concorrenza. Dalla mappatura realizzata dallo stesso governo italiano emergerebbe, invece, che le spiagge libere dello Stivale siano ancora al 67% del totale. Dunque, nessuna scarsità della risorsa naturale in oggetto, per cui la direttiva Bolkestein si potrebbe non applicare.
Ora, noi ci guardiamo bene dall’infilarci in questo guazzabuglio giuridico, ben consapevoli che nelle norme astratte ciascuno può leggervi quel che desidera. Il tema è realmente un altro: per quale maledetta ragione le concessioni balneari devono essere a vita, anzi persino passare in eredità di generazione in generazione? C’è una sentenza del Consiglio di Stato del 2021, che sostanzialmente impone la fine del loro rinnovo automatico al 31 dicembre di quest’anno. Il governo Meloni, che di certo ha un feeling elettorale con la categoria, potrebbe uscirsene pulito senza muovere un dito, avendo già deciso Europa e giustizia italiana.
Libero mercato versus feudalesimo
Ma c’è un’ostinazione che non si spiega neppure in termini elettorali nel voler difendere l’indifendibile. I balneari pretendono di avere possesso di un bene demaniale per diritto divino, cioè di negare ad altri di fare impresa al loro posto, anche se fossero in grado di offrire un servizio più economico e qualitativamente migliore. Eh, ma gli investimenti realizzati? A parte che in decenni e decenni di attività sono stati certamente ammortizzati, grazie anche a canoni risibili versati alle amministrazioni pubbliche, si può sempre trovare il modo di indennizzare eventuali investimenti recenti non ancora del tutto coperti dai ricavi.
L’importante è che le concessioni balneari siano messe a gara, come accade in qualsiasi sistema di libero mercato. Perché in gioco vi è la fisionomia del nostro sistema economico. Vogliamo evolvere verso una forma più matura di capitalismo o vogliamo indietreggiare verso la difesa delle radici feudali di un tempo? Mettetevi nei panni di un giovane, che abbia la voglia e le competenze per fare impresa nel settore turistico. Come farebbe mai ad ottenere una concessione balneare, se tutte le posizioni sono già occupate dagli stessi imprenditori da decenni?
Balneari e tassisti, stessa logica illiberale
E’ la stessa problematica dei tassisti, un’altra categoria che ha la pretesa di restare un club a numero chiuso. Anche in questo caso, il governo cerca di aumentare l’offerta senza ledere il “diritto” all’intoccabilità delle licenze già concesse. Nel caso dei balneari sarà pur vero che, specie in alcune aree del territorio nazionale, esistano grossi margini per aumentare il numero degli stabilimenti senza per questo privare il cittadino della possibilità di recarsi in spiaggia e fare il bagno gratuitamente. Ma ribadiamo che il tema è un altro: la difesa di un abuso indifendibile, che non ha giustificazioni né giuridiche, né economiche.
Intendiamoci, non sono i balneari e i tassisti il male dell’economia italiana. Il nostro è stato da sempre un sistema di capitalismo “relazionale”, in cui a fare impresa di certe dimensioni sono gli stessi spesso da secoli, perlopiù amici delle persone giuste. Basti pensare allo scempio delle privatizzazioni negli anni Novanta, quando abbiamo s-venduto pezzi di industria a soggetti che ne hanno fatto carne di porco. Il caso Telecom è forse il più emblematico. Ma non è tollerando piccoli abusi che rimettiamo le cose a posto. Due torti non fanno una ragione. E le missive romane a Bruxelles appaiono esattamente per quello che sono: la patetica difesa corporativa di una categoria sfuggente a ogni rispetto delle regole e che, tra l’altro, versa poche lire all’anno allo stato, a fronte di un fatturato pluri-miliardario.