Sta avvenendo in sordina tra il silenzio colpevole dei media un fatto che può essere considerato storico. Dopo mezzo secolo, l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman non ha rinnovato l’accordo sui cosiddetti petrodollari. Era stato siglato ufficialmente nel 1974 ed è arrivato a scadenza lo scorso 9 giugno, ma il regno non ha voluto darvi seguito. Le implicazioni a lungo termine per la supremazia del dollaro americano rischiano di essere travolgenti.
Dollaro garantito da accordo del ’74
Prima di capire perché, vediamo cosa prevedeva l’accordo.
Operazione win-win
Lo scambio fu “win-win” per le parti. I sauditi poterono concentrarsi sul proprio sviluppo economico senza preoccuparsi troppo in prima persona dell’instabilità nel Medio Oriente. Gli americani continuarono a beneficiare del dollaro come valuta di riserva mondiale. Infatti, quell’accordo costringeva l’intero pianeta a detenere dollari per acquistare petrolio e altre materie prime. La domanda di dollari restò elevata e ciò comporta indubbi vantaggi fino ad oggi: i titoli del debito Usa trovano sempre un’altra domanda sui mercati, con la conseguenza che governo, società e banche negli Stati Uniti possono indebitarsi a basso costo e al contempo avere un cambio forte.
Cosa succede con il mancato rinnovo dell’accordo? Teniamo presente che le tensioni tra Riad e Washington vanno avanti da qualche anno. Il principe detesta Joe Biden per le sue dichiarazioni ostili al regno nel passato sui diritti umani. Sul piano geopolitico, c’è la convinzione che l’Asia sarà il principale mercato di sbocco a lungo termine per il petrolio, mentre l’Occidente sia un mercato maturo e, soprattutto, intento ad allentare la propria dipendenza dai combustibili fossili con la transizione energetica.
Conseguenze da mancato rinnovo dell’accordo
Il mancato rinnovo non comporterà conseguenze immediate. Il dollaro resta una valuta senza alternative per svariate ragioni. Nessuna gode della stessa liquidità, nonché del grado di sicurezza garantito dal sistema legale e finanziario degli Stati Uniti. Impensabile che nel mondo vi siano persone o entità desiderose di rimpiazzare il biglietto verde con lo yuan o persino con l’euro. Da anni, comunque, la Cina guida il fronte dei paesi ostili al dollaro con l’intento di spodestarne il primato, perlomeno nell’ambito regionale asiatico. In questo senso vanno gli ingenti acquisti di oro della sua banca centrale, imitati dalle altre banche, a tutto svantaggio degli acquisti di Treasuries.
Nel lungo periodo le conseguenze potrebbero diventare dirompenti se l’Arabia Saudita effettivamente regolasse gli scambi in altre valute con i clienti non americani. Già è stato siglato un accordo con la Cina per effettuare i pagamenti nelle rispettive valute. Considerato che le esportazioni verso gli Stati Uniti siano oramai basse, c’è il serio rischio per Washington di assistere a una fuga dal dollaro. E questo accadrebbe proprio in una fase delicata per la sua situazione fiscale. Il debito federale cresce a ritmi elevati, attestandosi a fine 2023 al 125% del Pil.
Rischi per sistema Usa da dollaro non più valuta globale
All’improvviso per il sistema americano diverrebbe più costoso indebitarsi, cioè investire e acquistare beni durevoli a rate. Come se non bastasse, il dollaro perderebbe valore contro le altre valute. L’inflazione salirebbe anch’essa per il maggiore costo dei beni importati. E la Federal Reserve sarebbe costretta a tenere i tassi più alti di quanto non faccia oggi, dovendo fare i conti con una maggiore instabilità del cambio. Gli Stati Uniti diverrebbero una nazione normale, ossia soggetta alle leggi dell’economia come il resto del pianeta. E sarebbero dolori per un sistema abituato a credere da decenni di poter spandere e spendere senza conseguenze negative, riuscendo ad attirare capitali dall’estero e avendo in patria prezzi stabili e tassi bassi. Qualcuno a Washington sta dando poco peso a quanto (non) è avvenuto a Riad.