Da quando si è insediato alla Casa Bianca, il presidente americano Donald Trump ha esibito una politica estera piuttosto muscolare, accusando anche per interposta persona la Germania e il Giappone di manipolare il cambio, in modo da esportare di più e di essere tra le principali responsabili del pesante deficit commerciale USA. Ma Trump è noto per avere minacciato in campagna elettorale dazi del 45% contro i prodotti cinesi, accusando la Cina di “manipolazione del cambio”, attraverso la svalutazione dello yuan.
E, invece, proprio verso la Cina sta tenendo da settimane un atteggiamento piuttosto pacato, rimediando anche alla telefonata intercorsa con il leader di Taiwan, che di fatto aveva posto fine a una pluridecennale tradizione americana di non interferenza nella sentita questione dell’indipendenza dell’isola.
Fuga di capitali dalla Cina
Vi ricordate l’agosto del 2015, quando la Cina con diverse azioni a sorpresa svalutò lo yuan per il 3% in tutto? Le borse mondiali crollarono, come ci ricorda la drammatica seduta del 24 di quel mese. Da allora, il cambio contro il dollaro ha perso il 7,6%, anche se quest’anno ha recuperato un 1% tondo, quasi a rassicurare Washington.
In realtà, le cose non starebbero messe per niente bene per Pechino. Le sue riserve valutarie sono scese sotto i 3.000 miliardi di dollari a gennaio, per la prima volta da sei anni a questa parte, crollando di 1.000 miliardi dal picco toccato nel 2014. E nel biennio 2015-2016, la seconda economia del pianeta ha accusato deflussi di capitali per complessivi 833 miliardi di dollari. (Leggi anche: Cina, timori per fuga di capitali)