Sarà di quattro punti percentuali per stipendi fino a 35.000 euro lordi all’anno il taglio del cuneo fiscale. Considerato l’abbassamento dei contributi previdenziali già deciso lo scorso anno dal governo Draghi ed esteso dal governo Meloni, il beneficio massimo in busta paga arriverebbe a 100 euro al mese. Una soluzione necessaria per aumentare il potere di acquisto dei lavoratori in una fase di alta inflazione non contemperata da aumenti retributivi medi degni di nota. L’esecutivo punta sia a rendere strutturale tale decontribuzione, sia alla detassazione delle tredicesime.
Non sarà facile portare avanti tutte le iniziative fiscali in campo. Serviranno dall’anno prossimo 10 miliardi di euro solo per rendere definitivo il taglio del cuneo fiscale. E c’è anche il taglio delle aliquote IRPEF, promesso in campagna elettorale e ribadito in questi primi mesi di governo. Il centro-destra vorrebbe già dal 2024 passare a tre aliquote. Tutto questo mentre il deficit pubblico dovrà iniziare a rientrare nei parametri del Patto di stabilità e la spesa per interessi lievita per via degli aumenti dei tassi d’interesse.
Il taglio del cuneo fiscale vede, almeno in teoria, tutta la politica italiana favorevole, così come le parti sociali. E’ una priorità assoluta anche per Confindustria, secondo cui serve abbattere i contributi INPS di cinque punti percentuali per sempre. Costo stimato: 16 miliardi. Non si tratta di un capriccio di questo o quel partito. Ad aiutarci a capire qualcosa di più è il seguente grafico:
Taglio cuneo fiscale necessario, non sufficiente
Sintetizza l’andamento degli stipendi reali nei paesi del G20 dal 2008 al 2022. In questi quindici anni, soltanto tre paesi hanno registrato un calo: Giappone, Regno Unito e Italia. Ma gli stipendi italiani hanno accusato un vero tracollo: -12%. Le distanze con gli altri paesi avanzati, che già c’erano, si sono allargate.
Tuttavia, il solo taglio del cuneo fiscale non basta. Gli stipendi aumentano in base alla produttività. E questa è la nota dolente dell’Italia. La produttività da noi è stagnante da svariati decenni. Non per colpa dei lavoratori. Ci sono scarsi investimenti in innovazione, a causa spesso delle piccole dimensioni medie delle imprese italiane. Queste hanno perlopiù optato per tagliare i costi e competere così con paesi emergenti come la Cina sulle produzioni a basso valore aggiunto. E cosa dire del macigno della Pubblica Amministrazione? Un peso morto per l’economia italiana tra sprechi che costano parecchio alle tasche dei contribuenti e scarsa efficienza ed efficacia nell’erogazione dei servizi.
Di buono c’è che per abbassare il cuneo fiscale e, nel complesso, la tassazione a carico degli italiani serve fare altrettanto con la spesa pubblica. Vincolarsi a tagliare le tasse costringe per un certo verso a ridurre gli sprechi della Pubblica Amministrazione. Le misure in deficit non sono più possibili, né desiderabili. Torniamo al discorso di sempre: senza affrontare i mali storici dell’Italia non si andrà lontano.