Il 2022 è stato un anno straordinariamente positivo per l’Arabia Saudita, principale esportatore di petrolio al mondo. Il prezzo medio del Brent ha sfiorato i 100 dollari al barile con punte superiori ai 120 dollari dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Per la prima volta dal 2013, il regno ha chiuso il bilancio statale in attivo per il 2,5% del PIL. E l’economia nazionale ha registrato un boom dell’8,7%, superando per la prima volta nella sua storia la soglia dei 1.000 miliardi di dollari.
Dopo l’annuncio, il petrolio è tornato a rincarare sui mercati. Dalla chiusura di 72,66 dollari di venerdì scorso è salito a ridosso dei 77 dollari. Ad occhio e croce c’è stato un aumento dei prezzi nell’ordine dei 4 dollari pieni. Ad aprile, l’altro annuncio (a sorpresa) trainò i prezzi di 4-5 dollari al barile per circa tre settimane. Dopodiché è iniziato il ripiegamento ai livelli pre-taglio.
Perdite per sauditi fino a 70 miliardi
Con questa mossa l’Arabia Saudita spera di avere dissuaso i mercati dallo scommettere al ribasso sul petrolio. I produttori dell’OPEC non accetterebbero verosimilmente quotazioni sotto i 75 dollari. Questa strategia sta funzionando? Guardiamo qualche numero. L’anno scorso Aramco, la compagnia petrolifera statale saudita, incassò dalla vendita di greggio 326 miliardi di dollari. La metà di questa immensa cifra – 161 miliardi – si tradusse in profitti netti. Un record storico nel mondo di tutti i tempi.
A fine marzo, prima dell’annuncio sul primo taglio della produzione, il Brent costava sui mercati intorno a 80 dollari. E l’Arabia Saudita estraeva la media di 10,45 milioni di barili al giorno. Su base annua, restando a quei numeri il regno avrebbe incassato 305 miliardi, già in calo rispetto ai livelli dell’anno precedente. Tuttavia, i 77 dollari di questa settimana, moltiplicati per i 9 milioni di barili al giorno che da luglio saranno estratti per dichiarazione della stessa Riad, portano la proiezione annua a meno di 253 miliardi. Il bilancio di queste manovre sarebbe negativo per oltre 50 miliardi, circa il 5% del PIL nel 2022. Rispetto al 2022, invece, tendenzialmente ci sarebbe un crollo annuale delle entrate sui 70 miliardi, il 7% del PIL.
Chiaramente, le quotazioni del petrolio si muoveranno in alto o in basso nei prossimi mesi, per cui quello appena compiuto è un esercizio puramente teorico. Esso serve a capire, però, che allo stato attuale la produzione risulta essere scesa più velocemente di quanto non siano saliti i prezzi. Di questo passo, gli stessi sauditi troveranno conveniente tornare ad aumentarla. A meno che non temano che ciò faccia collassare ulteriormente e in misura maggiore i prezzi. E le cose potrebbero mettersi ancora peggio. La Cina ha visto crollare le esportazioni a maggio del 7,5% su base annua. Questo è un dato dalla valenza doppiamente negativa per il mercato del petrolio: segnala sia prospettive deboli di crescita per la prima economia importatrice di greggio e sia un rallentamento dell’intera economia mondiale.
Taglio offerta petrolio non salva mercato globale
Tra le altre cose, Cina e India stanno facendo incetta di petrolio russo a forte sconto anche del 30-35% rispetto ai prezzi “benchmark” internazionali. I più promettenti clienti per l’Arabia Saudita stanno ricevendo forniture sotto i 60 dollari al barile.
Storicamente, i tagli all’offerta di petrolio da parte dell’OPEC si sono rivelati sempre inefficaci alla lunga. Diversi stessi produttori membri trovano con il tempo conveniente approfittare delle alte quotazioni per esportare di più. La maggiore produzione, tuttavia, finisce per deprimere le quotazioni e riportare il mercato globale alle condizioni pre-taglio. Non a caso i sauditi si sono voluti accollare per intero il sacrificio, al contempo redistribuendo le quote a favore di chi ha margini di crescita, così da non trovare qualche brutta sorpresa da qui a breve. Basterà a far reggere l’accordo?