La decisione del governo Meloni di imporre una tassa una tantum sui profitti “extra” delle banche ha colto di sorpresa gli istituti di credito. Le azioni del comparto in borsa sono precipitate lo scorso martedì, chiudendo la seduta a -7,5%. Le perdite sono state successivamente in parte recuperate. Resta lo stupore per un balzello scriteriato, pur difeso dalla premier con un video su YouTube. L’obiettivo consiste nell’incassare un paio di miliardi di euro necessari a finanziare il taglio del cuneo fiscale, la riforma dell’Irpef e ad offrire sostegno ai titolari di mutuo a tasso variabile.
Prima di elencare un paio di effetti collaterali della misura, ripercorriamo brevemente le caratteristiche della tassa a carico delle banche. Essa varrà per il solo 2023 e dovrà essere versata allo stato entro giugno 2024. L’aliquota è del 40% e grava sul maggiore margine di interesse maturato quest’anno rispetto al 2021 o al 2022. Nel primo caso, sarà riconosciuta una franchigia del 6%; nel secondo, del 3%. Le banche dovranno optare per il periodo di confronto da cui scaturisce la maggiore base imponibile. Esiste un limite: l’importo da versare non potrà eccedere lo 0,10% degli attivi. In una prima stesura, era previsto un massimo pari al 25% del patrimonio netto contabile.
Rischio stangata commissioni
A cos’è dovuta la tassa sulle banche? I margini di profitto sono aumentati per gli istituti a seguito dell’aumento dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale Europea. Mutui e prestiti sono molto più cari di un anno fa, mentre i risparmi dei clienti continuano ad essere remunerati poco o nulla. Tecnicamente parlando, la misura si presta a molteplici critiche. Per prima cosa, essa colpisce la differenza tra interessi attivi e passivi e non tutti i profitti in generale. Questi sono composti essenzialmente anche dalle commissioni riscosse dalle banche sui servizi offerti alla clientela, compresi quelli legati agli investimenti.
Questa semplice constatazione ci spinge a prevedere che le banche cercheranno di sterilizzare la tassa scaricandone l’onere sui clienti per la parte relativa ai servizi in forma di maggiori commissioni. Poiché se alzano i tassi su mutui e prestiti aumenta l’imponibile, meglio puntare sulle altre voci per accrescere i profitti. Possibili notizie negative per la generalità dei clienti. I conti correnti potrebbero costare presto di più tra spese di apertura, canone annuo e costi legati ai prelievi o alla fruizione di servizi annessi come l’invio di bonifici. E già oggi si tratta di una voce di spesa per gli italiani tra le più alte in Europa.
Tassa banche colpisce BTp
E ci sarebbe un altro effetto collaterale. Il margine di interesse è determinato non solo dai tassi attivi su prestiti e mutui, ma anche dai rendimenti percepiti sui titoli di stato in portafoglio. Anch’essi producono interessi alle banche in forma di cedole. A questo punto, diverrà meno conveniente per loro acquistare BTp sul mercato o alle aste del Tesoro. Non solo. La tassa sui profitti “extra” delle banche punta ad aumentare la remunerazione del risparmio, cioè i tassi su conti correnti e deposito. Tuttavia, se ciò accadesse per davvero, aumenterebbe la concorrenza nei confronti dei titoli di stato. In questi mesi, essi sono considerati da molte famiglie quasi l’unica forma possibile di investimento a basso rischio con tassi accettabili.
Se i conti deposito offrissero 3-4% sui vincoli annuali, la necessità di puntare sui BTp verrebbe parzialmente meno. Il Tesoro dovrebbe alzare i rendimenti per attirare maggiori risparmi dalle famiglie. Da un lato incasserebbe un extra-gettito per via della tassa sulle banche, dall’altro spenderebbe di più per emettere debito. Non sarà un grande affare per nessuno. Se è indubbiamente vero che le banche abbiano dato noccioline ai risparmiatori e stangato i clienti su prestiti e mutui, ciò lo si deve all’abbondante liquidità di cui godono ancora oggi grazie alla politica monetaria ultra-espansiva del decennio passato.