La banca centrale della Repubblica Ceca ha annunciato ieri il primo rialzo dei tassi da quasi un decennio e pari a 20 punti base allo 0,25%. I tassi cechi erano stati tagliati allo 0,05% nel novembre del 2012 e da allora erano rimasti fermi. L’annuncio è arrivato a sorpresa, visto che almeno la metà degli analisti non aveva previsto la mossa di Praga. Anche perché in aprile, dopo tre anni e mezzo, l’istituto aveva rimosso il cambio minimo di 27 contro l’euro, imposto alla fine del 2013, rafforzando la corona ceca, che ieri scambiava fino a un minimo di 25,9, guadagnando il 3,7% rispetto all’eliminazione del tetto e lo 0,7% rispetto alla chiusura di mercoledì.
In teoria, già il rafforzamento del cambio avrebbe reso più restrittive le condizioni monetarie nello stato orientale della UE, ma evidentemente non la pensava così la banca centrale locale, che ha inasprito anche le condizioni sui tassi, registrando piuttosto stabilmente un’inflazione superiore al 2% e che a giugno si è attestata al 2,3%, quando nell’Eurozona è stata dell’1% più bassa.
La più bassa disoccupazione in UE
E c’è un altro aspetto che spiega forse la mossa di Praga. Il mese scorso, il tasso di disoccupazione nella Repubblica Ceca risultava il più basso di tutto il continente, pari solamente al 2,9%, nettamente inferiore al 7,7% medio della UE o al 9,1% nell’Eurozona. Nel primo trimestre dell’anno, i salari nominali sono cresciuti tendenzialmente del 5,3% e al netto dell’inflazione hanno segnato, comunque, un robusto +2,8%.
Insomma, le spinte inflazionistiche sembrerebbero esservi, anche perché nel paese si palesa una carenza di manodopera, che associata alle stringenti limitazioni all’ingresso di lavoratori stranieri, potrebbe fare salire ulteriormente i prezzi, frenando la crescita, che nel secondo trimestre del 2017 è stata piuttosto vigorosa e pari al +2,2% su base annua.
Finita l’era dei tassi zero in UE?
Ha fatto impressione che una banca centrale europea abbia alzato i tassi dopo anni. Si consideri che la Riksbank aveva intrapreso un ciclo restrittivo tra il 2010 e il 2012 in Svezia, ma fu costretta successivamente ad abbandonarlo e a seguire le altre principali banche centrali nell’accomodamento monetario non convenzionale, rischiando altrimenti lo scivolamento nella deflazione. Il suo governatore Stefan Ingves si beccò persino l’appellativo di “sadomonetarista” dall’economista e Premio Nobel, Paul Krugman.
Le condizioni appaiono molto diverse, tuttavia, oggi a Praga. Dopo anni di ripiegamento, l’euro tende a rafforzarsi contro le altre valute, avendo già segnato un +5% quest’anno. Per quanto la stretta della BCE non sia imminente, è quella la meta verso cui si sta dirigendo Francoforte, per cui non dovrebbe esservi il rischio per le valute UE ancorate in un qualche modo all’euro di rafforzarsi nei prossimi mesi, importando deflazione. (Leggi anche: Corona ceca sganciata dall’euro spazientisce traders)
In realtà, all’inizio dell’anno già anche la banca centrale danese aveva di poco alzato i tassi sui depositi delle banche al -0,65%, ma si è trattato non di una vera svolta monetaria, quanto di un aggiustamento delle condizioni offerte dall’istituto per stabilizzare il tasso di cambio, dopo gli ingenti afflussi di capitali nel 2015, che imposero la necessità di adottare tassi negativi.
La banca centrale ceca ha appena aperto la via della stretta in Europa dopo anni di allentamento senza quasi alcuna eccezione. Forse con ieri è stata segnata la fine di un’era, in attesa che le altre due banche centrali più grandi del continente – BCE e Bank of England – seguano con ogni probabilità nel 2018.