Ai più non dirà niente, anche se spegne quest’anno le dieci candeline. E potrebbero essere le ultime. Da giorni sulla stampa si specula circa la volontà del governo di Giorgia Meloni di cancellarla. E’ la cosiddetta Tobin Tax, introdotta a partire dal 2013 quando al governo c’era il Prof Mario Monti. Si tratta di un’imposta sulle transazioni finanziarie. Il nome deriva dall’economista James Tobin, che la teorizzò nel 1972 quale modo per ridurre le disuguaglianze nel mondo. L’idea alla base è semplice, quanto estremamente politicizzata: colpire le operazioni finanziarie e destinare il relativo gettito altrove.
Nel caso dell’Italia di ideologico forse ci fu poco. L’allora governo tecnico puntava a fare cassa attraverso una serie di balzelli, che finirono per deprimere l’economia italiana molto oltre le previsioni per intensità e durata. Il PIL si contrasse di quasi il 3% nel 2012 e dell’1,8% l’anno seguente. La ripresa vi fu solo nel corso del 2014.
Solo che molte misure adottate sull’onda del vampirismo fiscale si sono rivelate un flop totale. E la Tobin Tax rientra tra queste. Gettito stimato in oltre 1 miliardo di euro, mentre nel 2022 è stato di 460 milioni. Ciononostante, sarà complicato cancellare questa imposta, perché i contrari avranno gioco facile a gridare ai quattro venti che il governo intende così premiare i ricchi.
Tassa transazioni finanziarie, ecco come
In cosa consiste la Tobin Tax e perché è stata un flop? Nel caso di acquisti di azioni, il saldo netto giornaliero è colpito da un’aliquota dello 0,10%. Raddoppia allo 0,20% per le transazioni “over the counter” (OTC), cioè fuori dai mercati regolamentati. Si applica solo alle transazioni multiday, cioè non alle azioni acquistate e rivendute nella stessa seduta. Colpito anche il cosiddetto “high frequency trading”, cioè le transazioni eseguite in numero elevato in un lasso di tempo brevissimo. Infine, sui titoli derivati l’imposta è calcolata in somma fissa, in base alla tipologia del contratto e al suo valore nozionale.
Sono esclusi dalla Tobin Tax i titoli emessi da società quotate con capitalizzazione di borsa fino a 500 milioni di euro, nonché quelli emessi da società con sede all’estero. Il flop è dovuto a tante ragioni. E non è una specificità italiana. Sono sempre falliti i tentativi dei singoli stati nazionali di stangare le transazioni finanziarie, in quanto i capitali si mettono subito in fuga verso le realtà in cui il balzello non esiste. L’Italia introdusse al tempo la Tobin Tax nella convinzione che l’avrebbero adottata tutti gli stati comunitari. Invece, la Germania si tirò indietro successivamente. Tra i grandi paesi europei, solo la Francia imitò la misura, anch’essa con scarsi risultati.
I danni della Tobin Tax di Monti
I danni arrecati dalla Tobin Tax sono molteplici. Ha colpito lo sviluppo del mercato finanziario italiano, quando già assistiamo a un declino incessante di Piazza Affari da molti anni. Milano vale appena lo 0,50% della capitalizzazione delle borse mondiali contro il 2% del 2005. La stangata non ha aiutato a rendere l’Italia una meta attrattiva per i capitali stranieri, anzi ha messo in fuga quelli domestici. E ha altresì prosciugato la liquidità degli scambi, finendo per ridurre ulteriormente l’appeal della finanza tricolore. Non a caso, i delisting nell’ultimo decennio sono stati numerosi e hanno riguardato anche società di grosse dimensioni come ultimamente Stellantis, ex FCA.
E cosa dire di settori collaterali come l’informatica? Attorno agli scambi finanziari gravitano decine di migliaia di posti di lavoro di esperti informatici, dato che le operazioni di borsa sono ormai sempre più affidate alla tecnologia. Si pensi alle app per il trading online.
Esistono varie ipotesi in campo. Si va dalla cancellazione tout court della Tobin Tax al suo mantenimento per le sole transazioni sui mercati regolamentati, fino all’aumento della soglia di esenzione per i titoli emessi da società con capitalizzazione a 1 miliardo di euro. C’è da dire che per le condizioni fiscali in cui versa l’Italia non sarebbe neanche così immediato trovare quasi mezzo miliardo per le coperture finanziarie. Probabile che la soppressione vada avanti per step e si concluda entro qualche anno. Non si tratterebbe di fare un favore ai finanzieri, bensì di potenziare il business attorno a Piazza Affari e attirare maggiori capitali da far fluire a favore del mondo delle imprese, beneficiando gli investimenti e l’occupazione.