E’ direttore de Il Riformista da qualche giorno e già l’ex premier Matteo Renzi ha smosso le acque del giornalismo italiano con una notizia di primaria importanza. Il magistrato Gherardo Colombo avrebbe ammesso che Mani Pulite fu un “colpo di stato”. Le polemiche attorno a questa presunta ricostruzione non mancano, ma a noi non interessano. Piuttosto, sono trascorsi trentuno anni dall’inizio dell’inchiesta giudiziaria che travolse la Prima Repubblica. Ed è l’ora di fare qualche bilancio ragionato e scevro da faziosità politiche.
Il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano. Fu colto in flagranza di reato mentre intascava una tangente dall’imprenditore Luca Magni. Stanco di pagare, questi lo aveva denunciato. Chiesa era un esponente vicino al PSI di Bettino Craxi, che commentò la vicenda con la famosa espressione “Mario mariuolo”. Fu l’inizio di una più grande inchiesta, che nel giro di pochi mesi avrebbe azzerato i partiti della Prima Repubblica, facendo collassare Democrazia Cristiana, Partito Socialista e tutte le altre piccole formazioni al governo nei decenni passati.
Italiani stanchi di Prima Repubblica
Il pool di Mani Pulite fu coordinato dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, e ne fecero parte magistrati come Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Gerardo D’Ambrosio, ecc. Il clima in cui l’inchiesta nacque fu favorevolissimo ai giudici. Stampa e opinione pubblica, stanchissime della corruzione dilagante alla luce del sole, esultavano ad ogni tintinnio di manette. Milioni di italiani accorrevano la mattina nelle edicole per leggere soddisfatti il nome del politico di turno arrestato o indagato.
Attorno a Mani Pulite si creò un tifo da stadio. E non c’entrò inizialmente l’essere giacobini, di destra o di sinistra. L’Italia era stanca. Tra chi votava dall’MSI al PCI, passando per DCI, PSI e cespugli vari, non c’era un solo elettore che non chiedesse pulizia.
Se oggi qualche procura indagasse a 360 gradi sulla corruzione politica in Francia o in Germania, credete che sarebbe messa nelle condizioni di provocare il collasso istituzionale? No. Il famoso “deep state” agisce in ogni sistema in modo da conservare il cuore delle istituzioni. Avviene dappertutto, ma non in Italia nel biennio del terrore del ’92-’93. Ed è proprio ciò che merita un approfondimento. Com’è stato possibile che ex presidenti del Consiglio, ministri, segretari di partito, deputati, senatori e manager pubblici finissero o in manette o indagati, salvo essere nella maggior parte dei casi assolti dopo anni di processo?
Mani Pulite, coincidenze temporali
La sequenza temporale deve far riflettere. Nel 1989 cadde il Muro di Berlino, nel 1991 si sgretolò l’Unione Sovietica. Il muro anti-comunista eretto a Roma nel 1945 non serviva più. Democristiani e socialisti non furono più coccolati o perlomeno tollerati da Washington e dagli alleati europei. Improvvisamente, divennero ai loro occhi ominicchi corrotti, modesti e persino inutili. E, intendiamoci, in molti casi lo erano. Ma a chi giovò la scomparsa di un sistema? Forse a una Germania appena riunificatasi, desiderosa di imporre la sua supremazia politico-industriale in Europa? O forse a una Francia che temeva di essere scavalcata sul piano economico da un Bel Paese sempre più industrializzato e moderno?
Sull’agiografia della Prima Repubblica ci sarebbe modo da ridire. E’ vero che prima di Mani Pulite eravamo diventati una potenza alla pari delle grandi economie occidentali.
La politica nella Prima Repubblica aveva le mani dappertutto, fin troppo. I partiti sceglievano con il manuale Cencelli i manager pubblici a capo di questa e quella impresa. Le nomine seguivano due criteri: l’appartenenza politica e la capacità di perseguire obiettivi di politica industriale. Con la Seconda Repubblica, i manager pubblici sono scelti solo in base al loro colore partitico, mentre gli obiettivi da raggiungere semplicemente non esistono. Anzi, la politica è diventata così debole da subire le indicazioni dei boiardi di stato. A tratti, sembra che siano questi ultimi a scegliere i capi di partito e imporre loro l’agenda.
Declino Italia dopo Tangentopoli
Dopo Mani Pulite, l’Italia non è più all’avanguardia in nessun campo. Non nella chimica, nella farmaceutica, ha dovuto vendere a investitori stranieri l’acciaio, le telecomunicazioni, sta per farlo con l’ex Alitalia, l’industria automobilistica è scomparsa. Inevitabile in qualsiasi scenario, probabilmente. Molte realtà si erano ingrandite in assenza di concorrenza. Ma certo non ha aiutato l’essere stati privati di una classe dirigente credibile e collaudata. Il regalo più grande che il pool meneghino fece ai nostri competitor stranieri fu proprio questo. La decapitazione dei vertici politici e imprenditoriali pubblici ha lasciato campo libero alla concorrenza di attori europei che altrimenti non avrebbero avuto neppure il coraggio di fare ingresso sul nostro mercato a razziare pezzi di industria.
I risultati sul piano politico sono lapalissiani. Roma non ha alcuna autonomia decisionale, alla mercé dei commissari di turno, a loro volta espressione dell’asse franco-tedesco.
E salta agli occhi un’altra coincidenza temporale fin troppo palese per essere ignorata. Il ’92 fu l’anno di Mani Pulite, ma anche del Trattato di Maastricht con cui si gettarono le basi per la nascita dell’euro. Che forse le cancellerie europee non volessero avere a che fare con una classe politica considerata spendacciona e spina nel fianco con l’unificazione monetaria? Che qualcuno abbia esortato Washington a non difendere più un sistema politico-industriale di ostacolo alla costruzione europea, data la fine del pericolo comunista? Domande che resteranno forse eternamente senza risposte. L’unica certezza è che l’Italia dopo Tangentopoli è caduta in un declino persino demografico.