In Italia chi va in pensione dopo una lunga carriera lavorativa può considerarsi privilegiato. L’assegno pensionistico equivale mediamente a più del 70% della retribuzione media percepita, il che fa del nostro Paese un paradiso all’interno della Ue da questo punto di vista, anche se non durerà ancora per molto.
In Italia abbiamo il tasso di sostituzione più alto d’Europa. Siamo secondi solo dietro al piccolo Lussemburgo. Di cosa si tratta esattamente? Il tasso di sostituzione non è altro che il rapporto fra la pensione e l’ultimo reddito disponibile e che per il 2018 è risultato mediamente del 73%.
Pensioni al 73% dello stipendio
Un privilegio, anzi una stortura, derivante dal calcolo della pensione secondo le regole del sistema retributivo e che hanno comportato, fra le altre cose, un innalzamento del debito pubblico e uno sbilanciamento dei conti dell’Inps. Ma tant’è, finora questo sistema di calcolo della pensione ha garantito un tenore di vita superiore alla media a molte famiglie italiane che, altrimenti, sarebbero cadute in povertà. Un ammortizzatore sociale che ha evitato il peggio negli anni della recessione economica scoppiata nel 2008. Un sistema destinato ad esaurirsi poiché fra 2-3 anni le pensioni saranno calcolate tutte (o quasi) con il sistema misto e, nel giro di un decennio ancora, con il solo sistema di calcolo contributivo.
Pensioni e tasso di sostituzione in Italia
In Italia, come detto, il tasso di sostituzione nel 2018 è stato del 73%, il più alto d’Europa dietro al Lussemburgo (85%) ma anche il più alto della storia, almeno da quando è stato introdotto l’euro. Ciò significa che in media i pensionati italiani tra 65 e 74 anni guadagnavano il 73% di quanto fanno i 50 enni. Già, perché Il tasso di sostituzione (replacement ratio) viene calcolato confrontando le pensioni lorde dei 65-74enni con i guadagni dei 50enni.
Pensioni aumentate del 70%, stipendi solo del 35%
Rispetto al 2000 – fa notare l’Istat – le retribuzioni sono aumentate molto meno delle pensioni in un contesto di crisi economica che si è associata anche a provvedimenti di blocco dei rinnovi contrattuali nel settore pubblico favorendo così l’allargamento del gap tra le due curve. Un problema che affligge in particolar modo l’Italia rispetto agli altri Paesi europei e lo si vede dai numeri di crescita del Pil, laddove Francia, Germania e Spagna hanno battuto l’Italia sulla crescita economica uscendo anche per primi dalla crisi del 2008-2009. Non è quindi un caso che il nostro Paese sia affetto da un male cronico che tende a salvaguardare le rendite rispetto ai salari. Ovviamente no stiamo parlando delle pensioni minime o dei trattamenti assistenziali, ma di quelle medi e alte che sono numerose: una su quattro supera i 2.000 euro mensili.
Il gap fra rendite e stipendi
In altre parole, in Italia oggi come oggi sta meglio chi può godere di una pensione media rispetto a chi lavora. Cosa che negli anni 60-70 era impensabile solo da immaginare, ma che – per gli esperti – avrebbe generato una sperequazione sociale ed economica fra mondo del lavoro e mondo delle pensioni difficile da sanare. Non è un caso che nel 1995 l’allora presidente del Consiglio Lamberto Dini ci mise un freno stoppando il regime di calcolo retributivo delle pensioni per non mandare all’aria i conti dello Stato, già in precario equilibrio.