Mentre il presidente Sergio Mattarella cerca di trovare una soluzione di compromesso per consentire all’Italia di arrivare al vertice europeo di giugno con un governo nel pieno dei poteri, le prospettive di un accordo tra Germania e Francia sulle riforme delle istituzioni comunitarie e dell’Eurozona, che dovranno essere discusse per l’occasione, appaiono sempre meno facili. Il presidente francese Emmanuel Macron ha lanciato nel settembre scorso, pochi mesi dopo la sua elezione, una proposta di riforma della UE e, in particolare, dell’euro, che prevede l’istituzione di un ministro unico delle Finanze e di un bilancio comune per l’unione monetaria.
I tedeschi hanno fatto buon viso a cattivo gioco, nel senso che non hanno contrapposto apparentemente pregiudiziali alle proposte dell’Eliseo, ma nei fatti non le sostengono. Almeno, non la gran parte dell’opinione pubblica e del Bundestag, mentre i socialdemocratici dell’ex segretario Martin Schulz hanno fatto campagna elettorale e successivamente trattato la permanenza nel governo con la cancelliera Angela Merkel proprio, tra gli altri punti, sul consenso alla linea francese. Sarà un caso, ma l’SPD è uscita semi-distrutta dal voto di 7 mesi fa, registrando il peggiore risultato da inizio anni Trenta, ovvero dai tempi di Adolf Hitler in procinto di diventare cancelliere. Di questo stiamo parlando, di uno schieramento praticamente morto.
La stessa Merkel all’interno del suo partito è adesso apertamente sfidata dall’ala conservatrice della CDU-CSU, contrarissima a ulteriori concessioni ai partner europei su conti pubblici e salvataggi bancari. A guidare la rivolta è il giovane 37-enne Jens Spahn, che scalpita per prendere il posto dell’attuale cancelliera da qui a qualche anno.
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Viceversa, la stessa Ifo da anni sostiene che sarebbe persino un bene per l’Eurozona se la Germania si ritraesse e tornasse al marco, in modo da lasciare il resto dell’area in condizioni economico-finanziarie, nonché politico-culturali, più omogenee. A dirla tutta, questa è anche la posizione degli euro-scettici dell’AfD, partito che ha ottenuto quasi il 13% dei consensi alle scorse elezioni federali, attestandosi al terzo posto nel panorama parlamentare teutonico. Le vere distanze tra i conservatori e gli anti-euro in Germania si hanno semmai sul fatto che i primi per spirito di realismo politico tendono a mediare con i partner dell’Eurozona, i secondi, che non hanno alcuna responsabilità di governo, propinano soluzioni drastiche.
Tutto vero, ma queste ambiguità potrebbero finire presto e per l’esattezza con l’uscita di scena di Mario Draghi, governatore della BCE sin da inizio novembre del 2011, esattamente pochi giorni prima che la crisi dello spread travolgesse il governo Berlusconi in Italia. Il suo mandato scade alla fine di ottobre dell’anno prossimo. Al suo posto, stando alle aspettative degli analisti, dovrebbe arrivare il tedesco Jens Weidmann, attuale governatore della Bundesbank e oppositore strenuo della politica monetaria accomodante dell’italiano.
Qui, inizieranno i problemi per quei paesi come l’Italia, che con il governatore in carica hanno avuto in questi anni un vero santo protettore in Paradiso. Tre le misure che Draghi ha varato in questi 6 anni e mezzo di mandato e che hanno nei fatti salvato sia l’euro nel suo insieme, sia l’economia italiana nello specifico: le aste di liquidità illimitata e a costi bassissimi prima e sottozero dopo per le banche dell’Eurozona, ci cui un quarto andata proprio alle banche italiane; l’annuncio nell’estate 2012 che avrebbe fatto di tutto per garantire l’euro (“whatever it takes”), anche adottando un cosiddetto piano anti-spread o OMT; il “quantitative easing”, con cui dal marzo 2015 acquista assets (covered e corporate bond, Abs e titoli di stato) per svariate decine di miliardi al mese e fino al settembre prossimo.
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Quando Draghi avrà lasciato la BCE, verosimilmente il QE sarà cessato e i tassi saranno stati almeno un po’ alzati, partendo probabilmente da quelli overnight, oggi negativi al -0,4%. Weidmann si atterrà al perseguimento dell’unico obiettivo statutario, la difesa della stabilità dei prezzi, per cui le preoccupazioni che possa dar vita a una stretta monetaria ben più rapida di quella che l’italiano attuerebbe appaiono il riflesso di diatribe più ideologiche che concrete. Non dimentichiamoci, poi, che il governatore dispone di un voto tra i 19 membri del board, tutti votanti a rotazione. Dunque, il problema non sarebbe tanto il mutamento repentino della politica sui tassi, quanto il venir meno di quella copertura politica all’euro, che Draghi ha garantito sin dall’avvio del suo mandato e che ha consentito ai governi stressati dalla crisi dei debiti sovrani di riprendere fiato e alla Germania di continuare a giocare a nascondino, calciando il barattolo sul marciapiede e rinviando l’appuntamento con le proprie decisioni.
Con Weidmann la BCE non sarà più tutrice a prescindere dell’unità dell’Eurozona. I tedeschi hanno una visione “rules-based”, ovvero improntata sul rispetto delle regole e sul “chi sbaglia, paga”. Certo, sono molto meno ottusi di quanto vengano dipinti ed eviteranno di tirare la corda al punto di spezzarla, ma per la prima volta dovranno fare i conti al loro interno con la discrepanza tra i desiderata dell’opinione pubblica in Germania e l’interesse nazionale a salvaguardare l’unione monetaria, pur dovendo concedere agli alleati qualcosa su temi sensibili, come il “risk sharing”. A quel punto, la politica a Berlino entrerà in uno stadio avanzato di lacerazioni tra i fautori dell’euro nell’accezione solidale à la Macron e quelli che l’euro lo sostengono, ma fino a quando non entri in conflitto con i cardini dell’impostazione economica teutonica. E in un paese che ha chiuso il bilancio statale nel 2017 con un avanzo fiscale record di oltre 60 miliardi di euro (circa il 2% del pil) diventa difficile far passare il messaggio che alcuni governi puntino a crescere con politiche di deficit spending. Avvertite Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
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