La Turchia decide del proprio destino al voto del 14 maggio, quando si terranno sia le elezioni presidenziali che quelle per il rinnovo del Parlamento. Nel caso in cui nessuno dei candidati raggiungesse la maggioranza assoluta dei consensi, si terrebbe un secondo turno tra i primi due. I sondaggi danno il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan in svantaggio contro Kemal Kiricdaroglu, sostenuto da ben sei partiti e che sta riunendo sotto di sé tutte le opposizioni. A giorni, quindi, potrebbe esservi la fine della lunga era del “sultano”, al potere dal 2002.
Erdogan da modernizzatore a onnipotente
Quando arrivò al governo, in effetti, la Turchia era un’economia marginale e arretrata. Puntando sull’occidentalizzazione, anche a colpi di ingenti investimenti in infrastrutture pubbliche, l’allora premier riuscì in pochi anni a modernizzare il paese. I dati sono dalla sua parte: il PIL si è impennato da 240 a 905 miliardi di dollari, quello pro-capite è triplicato da 3.600 a 10.600 dollari. Negare la realtà non aiuta a capire cosa stia davvero succedendo in Turchia in questa fase.
In un delirio di onnipotenza, Erdogan iniziò una decina di anni fa a trasformarsi in padre e padrone di Ankara. Non accettò più alcuna critica al suo operato e ridusse al lumicino i poteri delle istituzioni indipendenti come la banca centrale. Autoproclamatosi “nemico dei tassi d’interesse”, pretese con sempre maggiore forza che questa li tenesse quanto più bassi possibili per sostenere il credito e la crescita dell’economia. Il risultato è stato spaventoso: la lira turca, che agli inizi del decennio scorso scambiava a 1,50 contro il dollaro, oggi è a circa 19,50. E se non fosse per il sostegno della banca centrale, probabilmente avrebbe raggiunto quota 25 da un pezzo.
Crisi lira turca e inflazione sfiduciano il “sultano”
La crisi valutaria ha innescato una grave spirale inflazionistica.
L’economia è adesso il tallone d’Achille di Erdogan. La banca centrale fatica a reggere la domanda di dollari e oro dei clienti. Le riserve valutarie collassavano a 66,9 miliardi di dollari al 21 aprile scorso dagli oltre 85 miliardi di dicembre. Non bastano gli swap con altre banche centrali del Medio Oriente. La crisi della lira turca è tale da alimentare una fuga dei capitali incessante. Al Gran Bazar di Istanbul, poi, il cambio è più debole del 3% rispetto al tasso ufficiale, segno che molte famiglie cerchino sotterfugi per accedere ai dollari senza essere monitorati dallo stato.
Voto Turchia appeso ad elettori all’estero?
Ma attenti a dichiarare Erdogan spacciato elettoralmente. A salvarlo potrebbe essere il voto all’estero. Nella sola Germania risiedono 1,5 milioni di turchi con diritto di voto. E qui il consenso per il presidente è stato sempre altissimo, arrivando a superare i due terzi del totale. Chi non sta in Turchia, non vive le problematiche di questi mesi e non capisce fino in fondo cosa significhi avere a che fare con prezzi che raddoppiano o triplicano in appena un anno. Tra l’altro, tende ad assegnare maggiore fiducia all’uomo forte e riconoscibile fuori dai confini nazionali.
Comunque vada, per la lira turca non sarà una passeggiata. La banca centrale non potrà sostenere a lungo la difesa del cambio. Dovrà arrendersi a lasciarlo fluttuare sul mercato forex. Ci sarà una svalutazione, quasi ironico per un paese in cui la crisi valutaria va già avanti da anni senza sosta. Certo, se a vincere fosse l’avversario di Erdogan, il mercato gli concederebbe probabilmente un minino di credito sulle riforme promesse e il collasso del cambio sarebbe limitato. Se a prevalere fosse l’attuale capo dello stato, invece, il tonfo risulterebbe ancora più rumoroso. E dire che sarebbe bastato continuare ad operare come nel primo decennio, all’insegna di maggiore libertà economica e stabilità fiscale e monetaria. In caso di sconfitta, a battere Erdogan saranno stati i suoi errori.